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Il peccato preferito del diavolo è la vanità.
Lo dice Al Pacino in quel bellissimo film che è L'avvocato del diavolo; lo racconta Maurensig costruendo magistralmente una favola nera per adulti, Il diavolo nel cassetto:
“Che cosa induce la gente a scrivere, se non un vago timore di non aver fatto abbastanza per garantirsi un seguito di vita? Per questo bisogna mostrarsi, far circolare il proprio nome, la propria immagine, riflettersi negli occhi degli altri e, da lì, imprimersi indelebilmente sulla lastra metafisica dell'universo, facilitando così l'Onnipotente nel rimettere a posto i pezzi del meccano il giorno della resurrezione. L'umanità intera coltiva questa folle speranza. E la parola è il mezzo ideale”.
Al diavolo si può anche non credere, ma è fuor di dubbio che la vanità sia “un oppiaceo naturale” per l'umanità intera: tutti, chi più chi meno, ci lasciamo irretire dal suo fascino e dalle sue promesse. E i social non sono forse la massima espressione di questo imperante narcisismo?
Dopo aver finito questo breve libriccino mi sono chiesta in quale misura ciò che facciamo su instagram -anche noi che abbiamo pagine dedicate prevalentemente ai libri- sia dettato dal desiderio di mostrare, apparire, sentirsi meglio di altri, ecc.
Per quanto mi riguarda, non ho vergogna ad ammettere che c'è anche questo nel calderone di motivazioni che contribuiscono in modo più o meno consapevole a farmi stare qui. Ma è una domanda che vi rilancio, amici, a mo' di provocazione perché sono curiosa di sapere anche le vostre riflessioni in merito.
E, se non lo avete già fatto, vi consiglio di recuperare libriccino e film (io bimba di Al Pacino per sempre).