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Tre sono le cose che più mi hanno colpito di questo memoir ambientato a Marrakech nel 1954:
- la multietnicità del luogo. Arabi, berberi, ebrei ed europei convivono, non senza qualche difficoltà, in una delle metropoli più importanti del Marocco.
- la conseguente impossibilità, spesso, di usare una lingua per comunicare. È il linguaggio, verbale e gestuale, a prevalere sulla lingua; sono i suoni, le voci, più che le parole ad essere oggetto di attenzione: versi che incantano, litanie che hanno il potere di condurre i passi o inchiodare i piedi in un punto fisso, per ore.
- lo sguardo come veicolo principale di comunicazione, uno sguardo rivolto più alle persone che ai luoghi. Canetti si fa portavoce di una geografia antropologica, la sua penna dipinge ritratti più che paesaggi e si sofferma in particolare sugli ultimi: i mendicanti, gli storpi, i malati, gli emarginati, i bambini. Il suo sguardo restituisce loro dignità, forse anche perché non riesce a penetrare fino in fondo nel mistero di queste persone, un mistero che viene così ammantato di sacralità.
È per tutti questi motivi che vi consiglio la lettura di questo libriccino. Per me è stato un viaggio meraviglioso, in compagnia di una guida che ha posato gli occhi esattamente dove avrei fissato i miei.