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Non nego di essermi approcciata a quest'autobiografia con un'elevata dose di scetticismo. Ho letto quasi cento pagine con un sopracciglio alzato, in testa un unico pensiero: “cara Marina, non mi stai affatto convincendo”. Non mi piaceva lo stile troppo diretto e asciutto; faticavo a credere a tutto quello che leggevo.
Ogni volta che chiudevo il libro, però, mi ritrovavo i suoi occhi in copertina piantati dritti nei miei. È uno sguardo che ti inchioda e sembra volerti scavare dentro anche solo da una foto. E gli occhi, si sa, difficilmente mentono.
A pagina 97 ho trovato due righe che hanno segnato un cambio di rotta nel mio approccio: “Ridurre l'arte a decorazione era per me una solenne stronzata. Nell'arte a me interessava solo il contenuto: ciò che significava la data opera”. Mi sono detta: “ecco spiegato il motivo per cui scrive come mangia!”. È stato per me un segno enorme di coerenza e ho abbandonato quasi tutte le mie resistenze.
Mi sono lasciata lentamente conquistare dalla personalità di Marina, un misto di forza e vulnerabilità che prendono vita una dall'altra in un cerchio che si ripete continuamente. Dalle pagine è emerso il ritratto di una donna che ha sempre voluto vivere per la propria arte e che non ha avuto paura di spogliarsi di tutto, compresa se stessa, per raggiungere questo obiettivo. Una volta ottenuto il successo, poi, con grande umiltà ha iniziato a rimuovere se stessa dal proprio lavoro per renderlo universale e alla portata di tutti. Infine, ha consegnato tutto nelle mani del suo pubblico e si è rimessa alla volontà di chiunque fosse disposto ad ascoltarla: “Io ero lì per tutti coloro che erano lì. Mi era stata concessa una grande fiducia di cui non dovevo abusare in alcun modo. Le persone mi aprivano il loro cuore e in cambio, ogni volta aprivo il mio. Questa performance andava oltre la performance. Questa era vita. Può essere l'arte isolata dalla vita? Deve esserlo? Cominciai a essere sempre più convinta che l'arte deve essere vita - deve appartenere a tutti. Sentivo, con un'intensità mai provata prima, che ciò che avevo creato aveva uno scopo”.
Signore e signori, questa è Abramovic.