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Tom Ripley si è perso. Si è spento. Ne danno triste annuncio i lettori attoniti. Non nel senso che sia morto come personaggio creato dalla Highsmith (questo è il terzo volume incentrato sulla sua figura, dei cinque scritti), è morto parte del suo fascino.
Il Ripley di questo libro è diventato all'improvviso piatto e quasi insignificante, quasi una comparsa di sfondo che agisce per benevolenza verso il prossimo. Lui, che era l'egocentrismo fatto personaggio. Lontanissimo, radicalmente all'opposto dal personaggio del primo e del secondo. La complessità del suo personaggio è diventata una pianura sconfinata. Soprattutto nel primo libro si sentiva il delitto posto sulla bilancia della colpa, qui l'omicidio è quasi banale, privo di significato, addirittura giustificato dal fatto che si uccidono dei mafiosi e dunque dei buoni che uccidono dei cattivi. Quale misero piattume.
Si faticherà a riconoscere, in questo Ripley, lo stesso uomo del primo libro; nella prima storia uccideva per la ricchezza, nel secondo perchè d'improvviso poteva perderla e qui perchè aiuta il vero protagonista di questa storia, come un buon samaritano (misericordia e pure sigh): Jonathan Trevanny, malato di una grave forma di leucemia, che accetta di diventare un assassino per poter guadagnare dei soldi con i quali garantire una qualche stabilità economica alla moglie e al figlio prima che avvenga la sua dipartita.
No, non ci siamo. Non si può creare un personaggio come Ripley e poi ridurlo a questo, a tratti sembra lui stesso voler manifestare il suo disappunto dalle pagine di questo libro, tornando in brevissimi sprazzi a essere quello di un tempo, una cosa come: “ehi Patricia, ma non è che qui si sta sbagliando qualcosa?!”
Da questo libro sono stati tratti due film, il più famoso “L'amico americano” è del 1977 diretto da Wim Wenders, che non ho visto, ma di cui leggo buone recensioni. Probabilmente migliori di questo libro.
Delusione.