Dopo un anno e mezzo sono approdata all'ultimo capitolo de La trilogia dei colori e l'ho terminata. Ho sperimentato la candida purezza di Neve, l'ombrosa passionalità de Il violino nero e infine la lucente speranza de L'apicoltore.
Le tre storie sono slegate una dall'altra, eppure i tre protagonisti si somigliano. Sono inquieti, hanno un chiodo fisso in testa ma non sanno come realizzare se stessi e il proprio destino. Si mettono in viaggio senza ben sapere cosa cercano, con gli occhi accecati da un unico colore: bianco, nero, oro. Devono ancora capire che la vita non è monocromia ma arcobaleno, che i sogni sono più belli se dipinti mescolando tra loro tutti i colori della tavolozza. Solo così può nascere la magia, e non perché viaggiando si conoscano posti diversi o altre persone ma perché si torna al punto di partenza con occhi nuovi, in grado di vedere (non solo guardare) ciò che è sempre stato lì ad aspettare.
Edith Bruck e Nelo Risi hanno condiviso oltre sessant'anni di vita stretti in un abbraccio che neanche la morte di lui è riuscita a sciogliere. Il loro è un legame viscerale, uterino (“Forse la tua presenza è interiore, come un'eterna invisibile gravidanza di te”) ma rispettoso delle differenze. La diversità di entrambi è accolta, valorizzata, amata pur con difficoltà, e se c'è stato un prezzo da pagare per una relazione così totalizzante non è l'aver confuso se stessi con l'altro, nell'altro, quanto piuttosto l'aver sentito la sofferenza altrui come fosse propria.
Dopo la morte di Nelo, scrivere diventa per Edith una necessità: “Parlandoti, scrivendoti, mi sembra di emergere dal pozzo buio dove sono caduta e di risalire verso la luce.” Dalle pagine affiora tanta malinconia, accompagnata però dalla consapevolezza che i ricordi sono il “cordone ombelicale” grazie al quale Nelo continua a vivere in lei.
Edith affida il dolore immenso per la perdita di Nelo alle parole e queste diventano testamento della loro unione. In eredità lasciano il libro stesso, partorito da Edith ma figlio di entrambi - come un bambino in cui si riconoscono il naso e la bocca della madre, gli occhi del padre. Come sigillo la scrittrice sceglie “Ti lascio dormire”, una frase sussurrata mattina dopo mattina fino a diventare amorevole consuetudine, simbolo di una quotidianità che tuttavia non ha perso il potere di commuovere.
Dopo aver girato l'ultima pagina del libro posso dire di conoscere Nono molto meglio rispetto alla descrizione un po' semplicistica che fa di sé all'inizio del libro.
Innanzitutto, è un ragazzino di quasi tredici anni che sta per fare la “maggiorità religiosa”. Ha il piglio dei bambini cresciuti troppo in fretta, di quelli che se la sono dovuta cavare da soli per la maggior parte del tempo. Ha il cuore grande di chi ha ricevuto poche carezze, la fragilità e l'insicurezza di quando mancano conferme. È un bambino agitato, inquieto, si tiene occupato da solo come può; ma si fa voler bene nonostante le bravate perché è impossibile resistere ai suoi grandi occhi azzurri e alla sua lingua tagliente che si produce in frasi di una schiettezza disarmante. Le persone che gli stanno accanto gli hanno nascosto molte cose per troppo tempo; Nono lo ha sempre saputo ma adesso disorientamento e confusione straripano dai delicati argini in cui è riuscito a contenere tutte le domande che avrebbe voluto fare. È arrivato il momento di avere risposte.
Stevenson ci parla della sua città natale usando uno stile semplice e pulito, permeato da quel tono di bonario sarcasmo che si riserva alle cose tanto amate e che si conoscono così bene che viene spontaneo metterne in evidenza anche limiti e difetti.
Dalla sua penna emerge il ritratto di una città piena di contraddizioni - architettoniche, storiche, sociali - ma ammantata di un irresistibile fascino pittoresco, forse proprio in virtù di queste strane e curiose incongruenze.
L'aspetto paesaggistico e naturalistico è senza dubbio quello più rilevante. Stevenson è innamorato degli scorci che la città offre sulla campagna appena fuori, e non perde occasione per descrivere questo contrasto/connubio di natura e cultura. A suo dire sono le colline l'eredità più importante di Edimburgo e ci trasmette l'idea che anche tutto ciò che è stato edificato dalle mani dei costruttori sia, in realtà, “un frammento della natura nel senso più intimo”.
La firma di Stevenson è senza dubbio il saper creare atmosfera: l'impressione di tutti quelli che hanno partecipato al gruppo di lettura è stata quella di immergersi tra le strade di Edimburgo e di camminare per la città, guidati passo passo dall'autore.
Per quanto mi riguarda non pensavo che questo libro, così fuori dalla mia comfort zone, potesse piacermi così tanto. Adesso non mi non resta altro che vedere con i miei occhi tutto quello che ho potuto leggere qui.
Leggendo questo memoir mi è venuta voglia di prendere e partire per le Orcadi, di fermarmi per qualche settimana su una di quelle isole disabitate che Amy descrive così bene. Il paesaggio non è relegato a sfondo della narrazione ma si insinua dolcemente tra le parole che la scrittrice usa per raccontarsi. La geografia delle Orcadi diventa parte della geologia del suo corpo; le sue emozioni sono onde, vento e tramonti. Amy è in simbiosi con le isole: dalla terra e dal mare ricava l'energia necessaria per restare sobria dopo un periodo di dipendenza dall'alcol. È commovente l'affezione verso questi luoghi dalla bellezza quasi incontaminata, la gratitudine per il loro potere calmante e salvifico. Avrei voglia di sperimentare le stesse sensazioni, di stare con il naso all'insù per odorare l'aria di tempesta, di vedere ogni roccia e pezzo di cielo menzionati nel testo.
Non ho dubbi che le Orcadi saranno meta di un prossimo viaggio non appena si tornerà a girare con più libertà; nel frattempo continuo a sognare attraverso i libri.
3.5
Sarò sincera: ho fatto fatica, talmente tanta fatica che mi sono sorpresa quando a fine lettura ho realizzato che le vicende narrate si svolgono in un arco temporale di ventiquattro ore, poco più.
Szabó non ha una scrittura semplice e la costruzione del romanzo non aiuta certo le cose: più voci e lunghi flashback che si alternano a repentini salti in avanti nel presente vengono usati per rendere visibile il fitto intreccio di vite raccontato qui dentro. È come tenere in mano il capo di un filo di cui non si vede la fine, tentare di arrotolarlo e scoprire che è parte di una matassa aggrovigliata, piena di nodi, strappi, rattoppi e tutto il resto.
Le storie familiari mi hanno sempre fatto paura; troppi nomi da tenere a mente (per non parlare dei soprannomi - feticismo non solo russo, a quanto pare), troppi eventi importanti a cui far caso perché sono la miccia di altri accadimenti che esploderanno di lì a poco, etc. Qui di famiglie ce ne sono ben due, per un totale di ventitré personaggi e tredici nomignoli; eppure ho coraggiosamente affrontato la lettura. E quanto fascino in tutta questa ragnatela di relazioni!
La svolta è arrivata a pagina 104, al capitolo che porta il nome di quello che sarebbe poi diventato il mio personaggio preferito: ‘Gyozo'. Qui mi è diventato chiaro che la scrittura complicata e la narrazione frammentaria che contraddistinguono la prosa dell'autrice non fanno altro che tentare di riprodurre il modo in cui pensano i protagonisti, il modo in cui tutti pensiamo, saltando continuamente di palo in frasca in un susseguirsi di associazioni mentali che noi stessi non saremmo in grado di spiegare.
Da qui mi sono semplicemente lasciata trasportare fino all'ultima riga, in un crescendo di emozioni che hanno (quasi) completamente cancellato la fatica delle prime cento pagine.
Credo che in ognuno di noi sia presente un (sano) lato voyeristico. Studiare psicologia ha, forse, esacerbato questa mia piccola mania, ma la verità è che ho sempre trovato divertente, interessante e istruttivo osservare le persone: vedere come si comportano, ascoltare ciò che dicono, provare ad indovinare i pensieri che si agitano dietro gli occhi di ognuno. Mi rivedo seduta in un vagone della metro o ferma ad una pensilina dell'autobus mentre mi domando: “Chissà dove sta andando?”, “Con chi starà parlando al telefono?”, “Perché ha un'espressione così triste? Cosa gli sarà successo?”.
Grand Hotel di Vicki Baum stuzzica proprio questo lato qui.
Immaginate di rimanere seduti nella hall per qualche giorno e non far altro che guardare il via vai di gente che entra ed esce dall'albergo; all'inizio non sapete niente di nessuno, ma dopo un po' riconoscete le facce, le associate ad un nome sentito per caso, imparate orari e abitudini dei soggetti più curiosi, notate con chi trascorrono la maggior parte del tempo o con chi intrecciano nuove relazioni e, soprattutto, iniziate a fare ipotesi su ipotesi.
Vi dirò di più: questi pensieri dicono di noi molto più di quanto effettivamente ci informino sull'Altro e un'autoanalisi su ciò che affolla il nostro cervello in momenti del genere è in assoluto la parte più interessante di tutto il processo (l'ho già detto che studiare psicologia mi ha definitivamente traviato?).
Sarà anche vero, dunque, che da un albergo si esce soli così come si è entrati - stando alla frase del libro che ho riportato all'inizio; tuttavia, quando si fa fatica ad incontrare “un Tu che si lasci cogliere o trattenere”, si può sempre provare con il proprio Io.
3.5
La prima cosa che ho pensato una volta aperto il libro è stata: Simone Lisi è del segno della Vergine. Dopo esergo e dedica, infatti, l'autore riporta la piantina dell'appartamento -“una casa costruita per quelli che in quella casa non ci abiteranno mai”- che sarà teatro dell'intero racconto. Andando avanti, altri dettagli hanno accresciuto questa convinzione: gli orari, esatti al minuto, che scandiscono la successione dei paragrafi, e i ragionamenti cervellotici senza apparente capo né coda portati avanti per tutto il corso del romanzo.
Dopo aver terminato il libro ho ascoltato un'intervista di Fahrenheit all'autore, scoprendo così di aver fatto (quasi) bingo: “Probabilmente subisco l'influenza di segni zodiacali della Vergine che mi stanno intorno”, dice Lisi.
Tutto questo per dirvi che mi sono inaspettatamente trovata in totale confort zone [ebbene si, faccio parte della suddetta categoria zodiacale] non solo per i contenuti, ma soprattutto per il modo in cui l'autore racconta, descrive e analizza una semplice cena tra quattro amici.
Abbiamo, dunque, un appartamento, due coppie (e un pupo), quarantotto orari, svariati aneddoti e storie (Lisi nasce novellista), quattro capitoli e un epilogo.
Vi sembra poco? Dovrete accontentarvi, non dirò altro sulla “trama”. Posso dire, però, che in questo “poco” c'è “tutto”. Tra le conversazioni di Doriano, Livia, Maddalena e Andreas ci sono i pensieri di un'intera generazione -i miei sono stati adeguatamente rappresentati e, da (quasi) psicologa, dubito fortemente che sia per il segno zodiacale.
Da un certo punto in poi pare quasi che uno di loro possa voltarsi all'improvviso e interpellare te, lettore, su questo o quell'argomento [in ogni caso, tu un'idea in merito ce l'hai pronta -ché non si sa mai].
È come se prendessi una sedia e ti mettessi al tavolo; alla fine della cena chiamerai tutti per nome nonostante siano 172 pagine appena.
E quindi, dato che i momenti di convivialità tra amici mancano a tutti, vi suggerirei di provare ad alleviarne il bisogno con questo libriccino qui [spoiler: alla fine vi mancheranno ancora di più, ma non sarete comunque pentiti].
3,5
Il peccato preferito del diavolo è la vanità.
Lo dice Al Pacino in quel bellissimo film che è L'avvocato del diavolo; lo racconta Maurensig costruendo magistralmente una favola nera per adulti, Il diavolo nel cassetto:
“Che cosa induce la gente a scrivere, se non un vago timore di non aver fatto abbastanza per garantirsi un seguito di vita? Per questo bisogna mostrarsi, far circolare il proprio nome, la propria immagine, riflettersi negli occhi degli altri e, da lì, imprimersi indelebilmente sulla lastra metafisica dell'universo, facilitando così l'Onnipotente nel rimettere a posto i pezzi del meccano il giorno della resurrezione. L'umanità intera coltiva questa folle speranza. E la parola è il mezzo ideale”.
Al diavolo si può anche non credere, ma è fuor di dubbio che la vanità sia “un oppiaceo naturale” per l'umanità intera: tutti, chi più chi meno, ci lasciamo irretire dal suo fascino e dalle sue promesse. E i social non sono forse la massima espressione di questo imperante narcisismo?
Dopo aver finito questo breve libriccino mi sono chiesta in quale misura ciò che facciamo su instagram -anche noi che abbiamo pagine dedicate prevalentemente ai libri- sia dettato dal desiderio di mostrare, apparire, sentirsi meglio di altri, ecc.
Per quanto mi riguarda, non ho vergogna ad ammettere che c'è anche questo nel calderone di motivazioni che contribuiscono in modo più o meno consapevole a farmi stare qui. Ma è una domanda che vi rilancio, amici, a mo' di provocazione perché sono curiosa di sapere anche le vostre riflessioni in merito.
E, se non lo avete già fatto, vi consiglio di recuperare libriccino e film (io bimba di Al Pacino per sempre).
Di quando il desiderio svuota al posto di riempire, allontana anziché avvicinare l'Altro.
Che Ovejero fosse un esperto “costruttore” di personaggi lo avevo capito molto prima di recuperare una videointervista su Youtube -Encuentro con el escritor José Ovejero- dove viene messa in risalto proprio questa sua particolare abilità.
Infatti, passato già qualche giorno dal termine della lettura, continuavo a pensare alle dieci storie contenute in questa raccolta e non riuscivo a levarmi dalla testa le donne e gli uomini protagonisti dei racconti.
Con una penna vivida, cruda e tagliente Ovejero riesce ad imprimere sulla carta dei ritratti tridimensionali, credibili e talmente realistici da risultare estremamente fastidiosi. Questo perché l'angolazione con cui riprende i personaggi è studiata in modo da evidenziarne la bassezza, tratto che tutti gli esseri umani condividono almeno in potenza -chi più chi meno e a seconda delle svariate circostanze.
Fastidioso è anche il tema che fa da fil rouge a queste dieci storie: il desiderio. Solitamente associo il desiderio a qualcosa di positivo, è un sentimento che riempie e che crea ponti tra le persone, le mette in contatto. Qui succede esattamente l'opposto: a popolare le pagine del libro sono desideri sordidi, inconfessabili, abortiti, non bene espressi o diretti verso mete irraggiungibili. E questo non può che lasciare grande vuoto e senso di smarrimento nei protagonisti così come nel lettore.
In definitiva, amici, questa raccolta di racconti mi è piaciuta talmente tanto che ho già provveduto a comprare un altro libro dell'autore. Ve la consiglio spassionatamente, anche se a volte sentirete l'impulso di tirare il libro fuori dalla finestra.
Se sapessi il tuo nome mi rivolgerei a te direttamente, ma non hai soddisfatto questa curiosità; l'ennesimo dubbio che hai lasciato in sospeso tra noi. Le tue parole mi risuonano in testa a distanza di mesi, alcune le ricordo a memoria. Di questo libro, che raramente ho il coraggio di aprire, sfogliare, rileggere, è rimasta solo la tua voce che ha cancellato tutto il resto. Non ricordo bene come va a finire la storia e nemmeno mi interessa. Voglio solo risentire la tua voce... ma allo stesso tempo ne ho paura. Già una volta ho provato cosa significa lasciarti entrare, prima appena dietro le pupille, poi al centro della mia cavità toracica. Hai sussurrato al mio orecchio la tua storia con lucidità e sofferenza insieme; inevitabilmente mi sono ritrovata coinvolta. Hai preso la forma dei miei fantasmi e al tempo stesso facevi luce sulle mie ombre. La tua voce è diventata la mia.
Vorrei che altri la sentissero, anzi, la ascoltassero.
Tu meriti non solo occhi e orecchie, ma mente e anima.
Ed è per questo che, incapace di parlare di te, parlo a te.
Parlo con te mentre tu continui a parlare al mio cuore.
“Il fatto è che quando si rompe qualcosa di cui nessuno si cura troppo, si creano delle ombre che prima non c'erano. La ciotola, prima, aveva un'ombra. Una sola. Adesso ogni coccio ha la sua. Dio mio, quante ombre sono state create. Piccoli lembi di oscurità che d'improvviso, insieme, sembrano più grandi di quanto non fosse la ciotola. È questo il guaio delle cose in pezzi. La luce muore e si fa sempre più tenue e le ombre... Quelle vincono sempre, alla fine”.
L'esordio di Tiffany McDaniel ha tanto da lasciare al lettore, ma su tutte c'è una cosa che questo libro mi ha ricordato con l'evidenza della folgore: l'importanza di curare le ferite. Ciò non significa che bisogna incollare a forza i cocci quando non si è ancora pronti, ma occorre essere consapevoli di quei pezzi per non perderli ed evitare di scheggiarli ulteriormente; solo in questo modo si riuscirà a far combaciare ogni parte con l'altra quando verrà il tempo di cicatrizzare e ricostruire.
Banale? A parole, forse, ma di fatto quando i tagli bruciano come l'inferno è più facile voltarsi dall'altra parte e lasciar marcire i lembi di pelle piuttosto che guardarli e prendersene cura. Alcune ferite rimangono aperte, trascurate per anni e continuano ad ardere del loro stesso dolore, come è successo agli abitanti di Breathed. Non si rendono conto che l'infelicità, la rabbia, il rancore, il rimpianto sono rimasti incistati sottopelle fino all'arrivo del Diavolo in città, l'avvenimento che fornisce a tutto questo Male il pretesto per riemergere.
Non c'è speranza, dunque? Forse non per questo romanzo. È necessario, affinché funga da monito, che mostri fino a dove può condurre la strada dell'incuria e del disamore verso le proprie cicatrici. Tuttavia, col senno di poi mi rendo conto che un tentativo di riparazione l'ho fatto anche con questo libro: come fossero cerotti ho lasciato tra le sue pagine tanti piccoli pezzi di carta che mi ricordano momenti felici passati in Sardegna: uno scontrino, una dedica di Fede, il foglietto di un biscotto della fortuna... Senza rendermene conto, l'ho trasformato in uno scrigno di tesori pregni d'amore per contrastare il dolore che affiora da ogni pagina.
3,5
Ho letto questo libriccino pochi giorni prima del mio compleanno, ad un soffio dalla conclusione del mio ventisettesimo anno di vita. Immagino vi sia nota l'espressione “Club 27” coniata dalla stampa nel 1994 per riferirsi a giovani artisti -come Jimi Hendrix, Janis Joplin, Jim Morrison, Kurt Cobain, Amy Winehouse- morti tutti all'età di ventisette anni.
Tralasciando la teoria del patto col diavolo (figura che, comunque, è stata inquietante elemento ricorrente delle mie letture estive), credo che Mancassola si sia ispirato a questa curiosa coincidenza per il titolo del libro.
I due brevi racconti danno voce a una profonda e intima riflessione sull'esperienza della morte, vista però dagli occhi di chi sopravvive. Tra i tanti pensieri, mi ha colpito in particolar modo questa riflessione: i superstiti ereditano la memoria di chi scompare, e questo processo è talmente radicale e radicato che arriva a mutare la percezione della propria identità. I ricordi, i pensieri, i sogni di chi muore si mescolano fino a confondersi con quelli di chi rimane in vita, tanto che la separazione tra gli uni e gli altri diventa operazione chirurgica, amputazione.
Appena settanta pagine, tantissimi spunti su cui continuare a ragionare.
Il diario di una nevrosi, un atto di resistenza.
“L'infanzia è un territorio sconosciuto. Anni della vita scomparsi, come se non li avessimo vissuti. A sprazzi la memoria ci presenta momenti isolati, luoghi persone impressioni, emersi dall'amnesia. E come possiamo sapere che cosa abbiamo rimosso. Cerco di recuperare qualche filo”.
È esattamente questo che fa Cassandra, protagonista e voce narrante di questo breve romanzo. Nelle sue mani la penna diventa affilato strumento di analisi, le pagine sono spazio bianco da riempire con fibre di memoria, intricato groviglio di emozioni e pensieri discordanti. Si viviseziona, Cassandra, alla ricerca delle cause che l'hanno indotta, più o meno consapevolmente, al rifiuto della maternità. Sviscera i suoi legami familiari -colmi di perbenismo borghese e insensato pudore, vuoti di affetto e complicità femminile- arrivando a capire che non se ne affrancherà mai del tutto. La sua scelta l'ha resa donna libera, eppure diversa agli occhi altrui.
Bonanni scrive questo libro immersa nelle atmosfere degli anni '70, quando gli interrogativi sul ruolo familiare e sociale della donna iniziano a farsi pressanti, urgenti, improrogabili. Tuttavia, passati quarant'anni, alcune scelte sono tutt'altro che insindacabili, sottoposte all'aspra critica, al giudizio severo, alla velata ma implacabile accusa. Le donne, quando non contrastate apertamente, si tenta di ridurle al silenzio, com'è successo a Laudomia Bonanni: finalista con questo titolo al Premio Strega del '79, ripubblicata da Cliquot solo quest'anno. “Perché si tende a rimuovere tutto quanto disturba”, scrive Cassandra nel suo diario riferendosi ad altro, ma tracciando profeticamente il destino delle parole che, nella finzione letteraria, affida alla carta.
Scrivere questo libro è stato per Bonanni un atto di resistenza, lo stesso intento che scorgo dietro alla sua ripubblicazione nel 2021, lo stesso sentimento che ho sentito io una volta terminata la lettura.
3,5
▪ Vivere sognando il futuro è un difetto del carattere. Ma anche vivere nel passato, immersi nella nostalgia, è un difetto del carattere. Vivere nel presente è considerato ammirevole dal punto di vista spirituale, ma ignorare le lezioni della storia o non riuscire a pianificare il domani sono visti come difetti del carattere.
Avevo ancora bisogno di annotare il momento presente prima di poter entrare in quello successivo, ma volevo anche capire come abitare il tempo senza inciampare in un difetto del carattere.
Il mio amore per Jeanette Winterson è sbocciato un'estate di due anni fa, per puro caso. Mi aggiravo tra gli scaffali di una libreria di Pesaro in cerca di libri usati e mi è capitato tra le mani Simmetrie amorose. Raramente acquisto libri d'impulso, a scatola chiusa; quel giorno è stato fortunata eccezione. Ancora non mi spiego cosa mi abbia attratta all'inizio: la copertina era orrenda, la trama incomprensibile, conoscevo la scrittrice solo di nome. Un mistero, insomma.
Leggerlo è stato come riconoscermi, vedermi scritta dalla penna (stupenda) di Jeannette, legarmi alle parole di una donna, che -ne ero convita- sgorgavano da ferite simili alle mie. Avevo letto un solo suo libro e già sapevo che non l'avrei più lasciata.
C'è stata una lunga pausa -circa due anni- poi sono tornata tra le sue pagine, quelle della sua autobiografia. Ho letto della sua difficile infanzia di bambina adottata, tra una madre coercitiva, fanatica religiosa e un padre remissivo, indifferente; della sua adolescenza di ribellione e resistenza, dei libri proibiti che le hanno salvato la vita, della sua fuga da casa a soli sedici anni; della sua omosessualità, delle idee femministe, del suo successo letterario in età adulta che è stato ferma ambizione, fiera determinazione e, infine, riscatto di una vita. Senza sorpresa, ho scoperto che ci separano 35 anni quasi esatti -io nata il 26 agosto, il 27 lei. Ho unito i puntini che ci legano -esperienze, manie, modo di ragionare, di amare, di guardare il mondo e vivere la vita- ed è uscito un disegno complesso, ma in cui mi sento accolta, capita, riconosciuta. Non sa nemmeno che esisto, eppure mi parla e parla di me come se mi conoscesse da sempre.
Per questo le sono, e le sarò sempre, infinitamente grata.
Di libri di cui vorremo scrivere solo “è bellissimo, fidatevi, leggetelo”.
Come spesso accade nei romanzi di Franzen, il perno attorno al quale ruota tutta la narrazione sono le relazioni -soprattutto quelle familiari, ancor meglio se pervase da un grado di patologia che farebbe invidia a un ospedale psichiatrico. Qui, tra tantissime cose, mi sembra particolarmente importante il tema dell'identità e del confine tra Io e Altro.
Abbiamo cinque protagonisti -Purity (detta Pip), Andreas, Tom, Anabel e Leila- che conosciamo man mano grazie a lunghi capitoli e un sapiente uso di flashback; le loro vite si intrecciano e intersecano quelle di molti altri personaggi, creando un romanzo complesso, stratificato e che tocca tanti temi collaterali a quello principale (come la pervasività di Internet nelle nostre vite, il giornalismo nell'era digitale, l'antinuclearismo, il concetto di verità contrapposto a quello di segretezza, il potere all'interno delle relazioni, ecc.) trattati in modo lucido e brillante.
Tornando ai personaggi, tutti mi hanno fatto girare i cosiddetti, nonostante ciò, non ce n'è uno al quale io non mi sia affezionata proprio perché estremi, imperfetti, disturbati, pieni di difetti e questioni irrisolte (forse, il mio guardare al disagio umano con tenerezza e bisogno di comprendere -anche quando la reazione più “normale” sarebbe di fuggire a gambe levate- è frutto di esperienze personali e anni di studio).
Probabilmente, da questo mio commento confuso non avete capito nulla, forse al posto di incuriosire vi ho spaventati... io, però, avevo detto che avrei voluto scrivere solo “AMICI FIDATEVI, È BELLISSIMO, LEGGETELO!”.
Immaginate di essere una ragazza tedesca di vent'anni durante la Seconda Guerra Mondiale. Un giorno come tanti altri venite arrestata senza spiegazioni e subite un processo sommario in cui l'accusa è di aver sporcato il sangue ariano con quello ebreo. Siete caricata insieme ad altre cinquanta donne dentro ad un carro bestiame diretto a Ravensbruck, un campo di lavori forzati dove venite rasata, spogliata dei vostri vestiti e tatuata per diventare un numero tra tanti altri. Immaginate un solo pasto al giorno dopo ore e ore di lavoro durissimo, punizioni crudeli per qualsiasi gesto di umanità nei confronti di altre prigioniere. Sentite la vita scorrere via dal vostro corpo, la vostra ragione abbandonarvi, non riuscite neanche più a piangere per gli orrori che vedete ogni giorno. Poi ricevete una proposta: a Buchenwald vi aspettano pasti decenti, un letto caldo, niente lavori estenuanti e la libertà dopo sei mesi; in cambio dovrete mettere il vostro corpo a disposizione delle SS e dei prigionieri del campo. Nella Germania nazista la prostituzione era un crimine punito spesso con la deportazione e vi chiedete cosa ci faccia un bordello in un campo di concentramento. Ma è il pensiero di un attimo; vi fate avanti con la convinzione che ciò che vi chiedono non può essere peggio dell'inferno in terra in cui siete capitata e vi aggrappate alla speranza che finisca presto. È l'inizio di un altro incubo.
L'esistenza dei cosiddetti Sonderbund - “Edifici Speciali” in cui le donne erano costrette a prostituirsi e a subire ogni genere di violenza - è stata a lungo taciuta, forse anche per rispettare il silenzio delle vittime. Con una penna rapida e asciutta Helga Schneider ci restituisce la preziosa testimonianza di una delle pagine più vergognose e dolorose della nostra storia, un racconto terribile ma che è necessario conoscere.
Fittonate estive e come assecondarle.
Quasi sempre con l'arrivo del caldo torna anche la voglia di tuffarmi tra le pagine di King. Non chiedetemi il perché dell'associazione: forse sento il bisogno di una penna fresca e scorrevole per contrastare l'afa estiva; forse lo stile del re dell'horror mi ricorda il movimento delle onde sulla battigia, costante oscillazione tra picchi spumosi e brevi risacche. Sta di fatto che così è stato spesso, e quest'anno non ha fatto eccezione.
Due i romanzi recuperati in versione e-book (entrambi intitolati con un nome proprio che inizia per “c”), 587 il numero complessivo di pagine, imprecisato -ma considerevole- il totale dei momenti in cui ho avuto la tachicardia superato solo dalla quantità di piantini che mi sono fatta, sia per l'uno che per l'altro libro.
Di seguito cosa ho apprezzato di
I protagonisti di questo romanzo mi hanno fatto pensare ad un arcipelago di quattro isole, vicinissime ma allo stesso tempo irrimediabilmente divise. Ponti di collegamento stabili e sicuri non ce ne sono, ognuno rimane inaccessibile agli altri almeno in parte. Il problema di fondo è l'incomunicabilità: ad un confronto aperto e schietto si preferiscono i segreti; della stessa storia esistono innumerevoli versioni, tutte autentiche ma incomplete. Tuttavia, durante quella prima estate trascorsa insieme i fili di queste quattro vite si ingarbugliano in un modo tale che diventa impossibile districarli; quando uno esce dalla trama ecco che gli altri lo tirano dentro di nuovo. A fare da collante sono sempre quei segreti che alternativamente dividono alcuni e uniscono altri, ma c'è anche l'amore per la terra su cui sorge la masseria, un luogo incantato e sospeso nel tempo che catalizza l'esistenza dei ragazzi. Mi sembra di conoscerla, di esserci stata, di aver vissuto lì dentro con Teresa, Bern, Tommaso e Nicola. Mi pare di aver visto i tramonti e le notti stellate, di aver udito il vento soffiare sul canneto e tra i rami del leccio.
Non ve lo spiegare: non ho mai visto Speziale eppure mi manca dall'istante in cui ho girato l'ultima pagina.
Se dovessi usare solo due aggettivi per descriverlo, direi che Memoria delle mie puttane tristi è un romanzo breve e indolente, stesse parole che nella mia mente associo alla vecchiaia.
Di fatto, questo racconto non è altro che un inno all'ultima età della vita, un tempo in cui le ore scorrono veloci come giorni e lasciano dietro di sé un peso che rallenta passi e mente.
Il nostro protagonista sta per compiere novant'anni e non s'immagina affatto di essere più vicino alla sua rinascita che alla morte. In un'età in cui corpo e anima sfioriscono e appassiscono lentamente, l'anziano professore vede germogliare dentro di sé il seme di un sentimento mai sperimentato prima: l'amore. Così, tra le pieghe malinconiche della nostalgia verso un passato che non può tornare si insinuano dolcemente riverberi d'incanto e gioiosa serenità per un futuro desiderabile.
E tu, lettore, non puoi fare altro che fermarti in contemplazione davanti a tanta bellezza e mistero.